Esaminiamo per sommi capi la situazione igienico-sanitaria della nostra città nel secolo ormai trascorso. Agli inizi del secolo le case, per la maggior parte a pianterreno, erano fornite di pozzo da cu si attingeva l’acqua che serviva per i vari bisogni, per la pulizia e per dissetare uomini ed animali. Fino alla prima guerra mondiale gli acquaioli (acquarule) si recavano ad un chilometro dall’abitato, su via Lucera, per attingere acqua dai pozzi.
Il lavoro era improbo perché, per riempire “a carrate” (la botte) di acqua, si servivano di secchi di legno che venivano tirati su a forza di braccia con l’aiuto del “mangano”, grosso rullo di ferro o di legno. Il lavoro era agevolato in quanto l’operatore si serviva di due secchi legati ai due capi della corda: quello pieno si svuotava nella “carrate”, mentre l’altro si riempiva di acqua nel pozzo. Questo lavoro continuava fino al riempimento della botte.
Verso il 1920 fu costruito un chiosco in Piazza Castello dove si vendeva l’acqua potabile di Serino, un Comune della provincia di Avellino, composto da venti frazioni, ricco di sorgenti di ottima acqua. Il prezioso liquido veniva trasportato, a mezzo ferrovia, a San Severo su carri-cisterna che scaricavano il loro contenuto nel serbatoio sottostante al chiosco. La nostra stazione ferroviaria disponeva, fino a trent’anni fa, di carrelli su cui erano sistemati i carri-merce con grossi serbatoi per il trasporto dei liquidi in ogni punto della città.
Quando il 1935 la città fu sventrata per la posa in opera dei tronchi principali della fogna e dell’acquedotto, gli acquaioli cominciarono a rifornirsi di acqua all’angolo fra via Rodi e via Brindisi, dove fu costruita una colonna con la presa di acqua controllata da un addetto che riscuoteva l’importo dovuto dagli acquaioli. Da informazioni assunte presso la famiglia Cirino, i cui componenti Severo, Rocco e Leonardo erano autentici “acquarule”, ho ricavato i nomi ed i soprannomi degli altri colleghi che al grido…dei guerra “Chi vò l’acqua, oh!” giravano per le strade per vendere l’indispensabile bevanda: Leonardo Carrino “Magnacarne”, Minutiello “Minutill”, Antonio Delfino, Matteo e Giovanni “Precciatelle”, “Sciorenze”, “U spaccone”, Matteo Verdone, Luigi Troiano “U Moneche”, Palermo “Tatagnole”.
Il mestiere dell’acquaiolo era pesante ma redditizio, tanto che tutti “ce sò fatt chèse e vigne”. In ogni stagione, levata alle 5 per “strigghià ù cavall” e poi la fila in via Brindisi per riempire “a carrète” che conteneva circa 800 litri di acqua. Venivano riforniti di acqua le casalinghe, per la cucina, il bucato e per l’igiene, i muratori per le varie costruzioni ed i contadini per i lavori dei campi. In media venivano effettuati dieci carichi di acqua al giorno. Quando sentivano il suono della tromba ed il grido caratteristico, le donne si affacciavano alla porta ed ordinavano i “varili” di acqua occorrenti. Il barile vuoto pesava circa 10 kg e poteva contenere 20 litri di acqua. Nella parte posteriore della “carrète” c’era un grosso rubinetto dal quale fuoriusciva l’acqua per riempire i barili. Qualche volta l’acquaiolo portava sulle spalle due barili e quindi circa 60 kg di peso. Una volta in casa della committente, posava il barile con la bocca in giù sulla “sarola” e, nell’attesa che si svuotasse, tornava verso il carretto per riempire un altro barile. Le massaie erano solite chiedere all’acquaiolo: “Iè frescha l’acqua?”. E l’immancabile risposta dell’interpellato era: “Iè frescha assà”. Da qui è stato coniato il modo di dire dialettale: “Ddumanne all’acquarule se l’acqua iè frescha”, che viene usato ogniqualvolta ci aspettiamo dal prossimo una risposta positiva già scontata in precedenza anche se non vera. Le “sarole” erano recipienti di argilla di capacità diverse: da 50 litri in su. Ne vediamo ancora sui balconi o nei giardini riempiti di terra contenenti piante ornamentali o alberelli. Quando questi recipienti non venivano puliti bene, si formavano dei vermiciattoli che guizzavano nell’acqua ed i meno attenti se li bevevano. Per attingere l’acqua da bere, in casa ci si serviva di un solo “secchitillo” di zinco o di alluminio, al quale tutti avvicinavano le labbra (allora non c’erano i bicchieri di plastica monouso). Mi risulta che nel 1964 un barile di acqua costava 15 lire. L’acqua fu venduta per le strade fino al 1970 e chi non aveva l’acqua in casa si riforniva alle fontane pubbliche dell’Acquedotto Pugliese disseminate nei diversi quartieri della città (CHISSÁ PERCHÉ IL COMUNE DI SAN SEVERO HA ELIMINATO MOLTE DI QUESTE FONTANE!).
Questo è uno dei tanti mestieri scomparsi in città; ne abbiamo parlato perché non se ne perda la memoria.
a cura di Domenico Tota
articolo già pubblicato su La Gazzetta di San Severo, 13/10/2001